Rodolfo Pizzi è nato a Milano il 27 dicembre 1923. Un periodo tormentato, segnato dalle devastazioni della prima guerra mondiale, dai tumulti operai e dalla nascita del partito fascista. Il padre era un artigiano, la madre una casalinga: una famiglia semplice, in cui Rodolfo avrebbe potuto crescere serenamente. Ma il destino aveva deciso altrimenti e il padre morì quando era ancora un bambino; troppo presto per accompagnalo verso la maturità.
Una cinquantina d’anni prima, alla fine dell’Ottocento, Nietzsche scriveva nella sua raccolta di aforismi
“Umano, troppo umano” che “chi non ha la fortuna di avere un padre, deve procurarselo”.
Rodolfo Pizzi cercò quel nuovo padre e lo trovò nello zio Amilcare.
Padre, se anche tu non fossi il mio padre,
per te stesso, egualmente t’amerei…
(Camillo Sbarbaro)
Parlare di Rodolfo Pizzi e del suo lavoro, ricordare la sua figura e ripercorrere la trama delle sue azioni scavando nelle pieghe della sua personalità, significa innanzitutto parlare di suo zio Amilcare e del rapporto che ha legato due persone che si sono poste l’una di fronte all’altra come un padre e un figlio.
“Avere un figlio ingrato è più doloroso del morso di un serpente,” diceva Shakespeare nel Re Lear, riferendosi a un dolore che Amilcare Pizzi non ha mai provato. Il nipote Rodolfo è stato per oltre quarant’anni un figlio devoto, affettuoso e premuroso, oltre ogni aspettativa…
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La figura di mecenate si addiceva bene a Rodolfo Pizzi e conferiva alla sua generosità un taglio dinamico e attuale, vicino al suo ruolo di imprenditore. Si addiceva bene anche alla ditta Pizzi, che Amilcare e Rodolfo avevano sempre considerato un luogo di lavoro artigianale molto simile alla bottega d’arte rinascimentale. Un posto dove le opere non si creano per ispirazione divina ma su commissione, applicando la tecnica ed esercitando i saperi con passione e dedizione. Il lavoro artigianale come mezzo di espressione e strumento di realizzazione personale. La bottega come luogo dove trasferire ai giovani un patrimonio di conoscenze, una filosofia professionale, una fantasia progettuale. Una trasmissione delle esperienze che si realizza attraverso l’osservazione quotidiana del maestro, l’imitazione dei suoi gesti, la comprensione del suo atteggiamento verso il lavoro da svolgere e i problemi da risolvere.
Il disegno e il colorito vogliono che si sappia tritare, macinare, incollare, impannare, ingessare, radere i gessi e pulirli, rilevare di gesso, mettere di bolo, mettere d’oro, brunire, temperare, campeggiare, spolverare, grattare, granare, camucciare, ritagliare, colorire, adornare.
Questa è arte, e si chiama dipingere. Occorre fantasia, per trovare cose non vedute, e fermarle con la mano dando a dimostrare quel che non è, ma sia.
(Cennino Cennini)
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Se il valore di un imprenditore si vedesse solo dalla sua capacità di mettere l’interesse dell’azienda davanti a tutto, probabilmente Rodolfo Pizzi non è stato sempre un buon imprenditore. Troppe volte, infatti, da quando ha raccolto il testimone dallo zio Amilcare fino a quando l’ha consegnato nelle mani del figlio Massimo, ha ascoltato più le ragioni del cuore di quelle della mente, ha favorito gli interessi degli amici e dei collaboratori, cercando la qualità più spesso del profitto.
Se fosse stato un uomo diverso, Rodolfo Pizzi avrebbe forse potuto essere un imprenditore migliore. Per fortuna sua e di chi gli è stato vicino, non è stato mai né un uomo né un imprenditore diverso da se stesso. Il lavoro è sempre stato al centro dei suoi pensieri, ma proprio questo indissolubile intreccio tra vita e professione ha fatto sì che le due cose si fondessero indissolubilmente l’una nell’altra.
Sèm poca roba, Diu, sèm squasi nient,
forsi memoria sèm, un buff de l’aria,
umbrìa di òmm che passa, i noster gent,
forsi ‘l record d’una quaj vita spersa,
un tron che de luntan el ghe recàma,
la furma che sarà d’un’altra gent…
Ma cume fèm pietâ, quanta cicoria,
e quanta vita se la porta el vent!
Andèm sensa savè, cantand i gloria,
e a nüm de quèl che serum resta nient.
(Franco Loi)