Il manifesto di Leopoldo Metlicovitz mostra un uomo e una donna di spalle, accovacciati su una locomotiva che attraversa una galleria. Lui è Mercurio, il dio della velocità, delle comunicazioni, dei commerci; la galleria è il traforo del Sempione. La locomotiva corre veloce da Parigi a Milano. All’orizzonte, oltre la fine del tunnel, si intravedono le guglie del Duomo.
L’immagine annuncia la grande Esposizione Internazionale di Milano del 1906, dedicata ai trasporti e all’apertura del traforo tra l’Italia e la Svizzera. Un milione di metri quadrati di mostre nell’area compresa tra il parco Sempione e piazza delle Armi, duecento edifici tra cui l’Acquario civico, trentacinquemila espositori, oltre cinque milioni di visitatori. Tra le attrazioni della grande Esposizione c’è anche Buffalo Bill, il cowboy che per una settimana si esibisce all’Arena civica con il circo del selvaggio West.
Nell’immagine della Milano d’inizio secolo che visita l’Expo, c’è la sintesi di un’epoca che raccoglie l’eredità del positivismo e scontra i propri sogni contro il muro impietoso della Prima guerra mondiale. Il ritratto di una società che concepisce ancora la Storia come un flusso lineare e omogeneo di avvenimenti tesi al benessere della collettività; una società pervasa da un atteggiamento di fiducia nel futuro e nelle capacità dell’uomo di controllare l’ambiente e gli elementi, nella convinzione che il domani sarà sempre migliore dell’oggi.In Italia si è stabilizzata la spinta rivoluzionaria del Risorgimento e si diffondono i fasti della “belle epoque”. Sono gli anni delle prime automobili e delle ultime carrozze, di artisti come Monet e Gauguin, di teatri sempre illuminati e affollati. Sono gli anni di Freud e della psicanalisi, di Marconi e delle onde radio, di Einstein e della relatività, della medicina e dell’elettricità; anni in cui l’Orient Express attraversa ancora il vecchio continente e collega Londra, Parigi, Milano e Vienna all’Oriente magico di Costantinopoli.
Dalla prefazione di Giulio Sapelli
Il mercato è fatto di relazioni personali. Le merci non si incontrano se non si incontrano le persone. Il lavoro umano si realizza nelle fabbriche, negli uffici, nelle reti immateriali del web e produce gli strumenti più efficaci, gli accessori più mirabolanti e tutto ciò che costituisce l’universo tecnico che ci circonda. Ma tale universo, per divenire macchina che produce altra macchina, oppure strumento che adempie a compiti che è possibile assolvere grazie ad apprendimenti che spesso sono secolari, tutto questo universo deve incontrare coloro che lo rendono mondo vitale. Generalmente sono chiamati compratori, acquirenti, clienti.
Sfogliando le pagine di questo libro comprendiamo subito che queste definizioni da vocabolario non possono racchiudere il significato vero delle persone che quell’universo rendono possibile e che fanno ciò instaurando, con coloro che quell’universo producono, una rete di relazioni. Nel linguaggio comune, che troppo spesso nasconde la realtà semplificandola sino a renderla irriconoscibile, tutto questo processo si chiama mercato. Ma se si avrà la pazienza di leggere questo libro e soprattutto di meditare sulle straordinarie immagini che lo arricchiscono si comprenderà che il mercato si è costruito così come si è costruita la “nostra” Fiera di Milano.
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Dalla nota introduttiva di Salvatore Carruba
A partire dal 1948, tradizionalmente, la data del 12 aprile (e poi del 14) prevedeva a Milano due appuntamenti fissi: l’arrivo del Presidente della Repubblica, e quello della pioggia, entrambi richiamati dall’inaugurazione della Fiera Campionaria. Normalmente, il maltempo lasciava rapidamente spazio all’esplosione della primavera; e le folle che sciamavano per la Fiera intorno alla data di chiusura, il 27 aprile, pregustavano ormai l’estate. Ma, variabilità climatica a parte, Milano, nei giorni della Fiera, poteva riconoscere a se stessa due peculiarità che erano lentamente maturate nell’ultimo secolo e mezzo e che ne avrebbero definito il ruolo negli anni avvenire: essere il motore insostituibile dell’economia italiana; e presentarsi come la vetrina del Paese sui mercati internazionali. Per questo, non c’era discussione che il Capo dello Stato presenziasse all’appuntamento, con fedeltà paragonabile a quella riservata alla prima della Scala. Fu proprio il valore simbolico di quell’appuntamento, tanto più nell’anno che ne segnava la ripresa dopo la tragedia bellica, che spinse un nuovo giornale milanese a presentarsi al pubblico nella data di apertura della nuova Fiera (che non aveva ancora ripreso la cadenza di aprile), il 12 settembre 1946. Si tratta di “24 Ore”, il nuovo quotidiano economico di Ferdinando di Fenizio, Libero Lenti e Federico Maria Pacces, (aveva due pagine e costava 5 lire) che quasi vent’anni dopo si sarebbe fuso col “Sole”, e che così spiegava in quel primo numero la scelta: “Abbiamo voluto che il primo numero…coincidesse con una data altamente significativa nella vita del nostro Paese: quella della ripresa della Fiera di Milano, alla quale da ogni parte d’Italia e dall’estero le energie produttive concorrono in una manifestazione di fede materiata di fatti e non di parole”.