BLUE JAZZ CAFÈ L’aroma delle note

Un corpo immenso. Un quintale abbondante, ben distribuito su un paio di metri d’altezza ricoperti di pelle nera. L’uomo scende dal treno e cammina senza fretta verso il posto di blocco. In spalla ha uno zainetto; in mano regge la custodia di una cornetta. Prende il passaporto e lo porge a un soldato siriano che lo guarda incuriosito. Sul documento c’è scritto: Jazz.

Mr. Jeffrey Jazz, New York City, musicista.

Il militare dà un’occhiata allo zainetto. Poi apre la custodia della cornetta; non vede nulla e la richiude.

– Tourisme? – chiede in francese.

– Tourisme, – risponde Jazz.

Fa caldo. Una mosca vola con insistenza accanto al viso del siriano. Jeffrey Jazz segue i movimenti irrequieti dell’animale. Coglie una serie di note lunghe e basse, suonate da un violoncello e da una viola. Cattura un elemento musicale interessante e lo annota tra i suoi pensieri. La mosca si ferma un istante, poi riparte nervosa. Una tromba esegue una serie di acrobatiche evoluzioni. Poi la mano del soldato scaccia l’insetto e la musica sfuma.

L’arabo è stanco, accaldato. Vorrebbe tornare a casa, bere del caffè sotto un albero di fico, parlare con un amico. Il ritorno improvviso della mosca lo costringe a concentrarsi sul passaporto di Mr. Jazz.

Al corso gli hanno insegnato che «gli americani pericolosi sembrano uomini d’affari e hanno sempre i documenti in ordine. Alcuni parlano addirittura in arabo…»

Mr. Jazz non sembra un americano pericoloso.

Richiude il documento e con un cenno del capo gli fa segno di andare.

– Welcome in Aleppo, – aggiunge con un sorriso.

– Sukran, – risponde Mr. Jazz.

Alle volte basta poco.

Jazz raggiunge l’uscita della stazione. Nella sua testa riaffiora il tema di prima. C’è una scala mobile in lontananza. Dev’essere rotta, perché produce un suono grave e continuo. Un vigoroso contrabbasso esegue quella nota mentre la tromba ricomincia a volteggiare assieme a un sassofono. Un paio di violini discutono fitto fitto ancora più in alto. Loro volano.

Di colpo si apre la porta a vetri e Jazz viene investito da un’ondata di caldo secco. Istintivamente si passa una mano sulla fronte, ma non è sudato.

La musica è svanita. Fa troppo caldo anche per pensare.

Sale su un taxi e scende in Baron Street.

L’ingresso dell’hotel Baron è monumentale e dimesso al tempo stesso. Ha l’aroma intenso della storia, delle cose che sopravvivono al loro passato. L’interno è prezioso, ma sconnesso. Dietro al banco sono appese le foto di Lawrence d’Arabia e Agatha Christie. Accanto a loro le immagini di tanti diplomatici e avventurieri che Jazz non riconosce.

La sua stanza è al primo piano, affacciata sul giardino. Il profumo del glicine si mescola ai suoni dei clacson in strada. Mondi lontani che coinvolgono i sensi e generano nuove note. Jazz cerca di resistere all’ossessione della musica. Dalla tasca dei pantaloni prende un foglietto di carta con un numero di telefono. Poi si siede sul letto e lascia che la rete ceda sotto il suo peso. Si toglie le scarpe, afferra il cellulare, compone il numero, attende in linea.

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