DE NORA Racconti da un secolo di vita

Pulviscolo in sospensione. Granelli di polvere accarezzati da un fascio di luce nell’aria ferma del laboratorio. La luce è materia. Filtra dalla vetrata e disegna il profilo di un banco da lavoro in legno perpendicolare al calorifero, spento anche in inverno.
Ogni mattina la luce è la prima ad arrivare in laboratorio. Subito dopo si apre la porta. Un giovane si toglie la giacca e indossa il camice. Lo abbottona camminando verso il banco illuminato. L’aria adesso si muove leggermente, le particelle sembrano danzare in controluce.
Il laboratorio di elettrochimica dell’università di Milano assomiglia a un opificio: il soffitto alto, le finestre ampie rivolte a sud. La luce dà rilievo alle cose, definisce i luoghi del lavoro.
Il giovane ricercatore si chiama Oronzio De Nora; è nato ad Altamura alla fine dell’Ottocento e ha poco più di vent’anni. Si è appena laureato in ingegneria  industriale e sta seguendo un corso di specializzazione in elettrochimica. Lavora sull’elettrolisi dei cloruri alcalini. Lo vediamo aprire un cassetto e prendere un taccuino, sfilare la matita dal taschino del camice e iniziare a scrivere. Di fronte a sé, ben allineati sul bancone, contenitori di vetro sigillati e composti chimici.
Oronzio sta realizzando una nuova cella elettrolitica per produrre ipoclorito di sodio. Le tradizionali celle del laboratorio erano costituite da una coppia di elettrodi immersi in una vasca d’acqua salata. Gli elettrodi erano collocati in verticale o in orizzontale; Oronzio aveva avuto l’intuizione di inclinarli per ottimizzare il processo di produzione. Aveva immaginato la soda caustica densa e solida scivolare verso il basso, il cloro gassoso salire verso l’alto e l’elettrodo inclinato governare la reazione come l’argine di un fiume. Il modello sperimentale aveva funzionato bene e Oronzio De Nora aveva ottenuto un brevetto industriale. Il primo di una lunga serie.

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