Le pietre dei druidi

Mosè alza la testa e guarda il cielo. Poi batte il piede sul terreno duro e compatto, infine si accarezza la barba.
Dice: “Stasera piove.”
Lui è a duemila metri, in alpeggio. Attorno ci sono le mucche, le capre, i figli. Gli animali si compattano sull’erba, gli esseri umani entrano nel calécc.
Tutti aspettano, inquieti.
Noi siamo giù a Morbegno. Guardiamo le stelle e diciamo: “Bella serata!”
Poi andiamo a dormire. Siamo sereni.
Ci svegliamo poco prima di mezzanotte. All’inizio il rumore del vento, poi lo scroscio dell’acqua, infine la grandine, il battere ossessivo del ghiaccio sui vetri della stanza.
In quota è tutto un muggire, belare, tacere. Non sono lamenti, ma suoni pazienti d’attesa. Smetterà.

L’indomani, alle otto in punto, siamo a Gerola Alta, davanti al centro di stagionatura del Bitto storico dove ci aspetta Paolo, il presidente del consorzio degli allevatori. Il cielo è limpido. La valle è ancora in ombra, ma si intuisce che sarà una giornata scintillante.
Due parole e poi su, verso l’alpeggio dove lavorano e vivono Mosè e altre tredici famiglie di casari. Fanno il Bitto storico, come i Celti duemila anni fa, immersi nella natura della loro terra.
Già a dirla così, questa famiglia allargata di pastori sparsi per la montagna sembra la messa in scena di un presepe. Molti di loro hanno meno di trent’anni. Un dato insolito, che mette speranza.
La strada sterrata è sconnessa. Il fuoristrada sale lento ma inesorabile. È abituato a questi tracciati e ha i suoi ritmi. Io fremo. Appassionato di corsa in montagna vorrei scendere e salire con le mie gambe. Lo farò magari più tardi, al termine della giornata.
Massimo invece soffre di vertigini e guarda verso monte. Io gli mostro continuamente la vallata mozzafiato e lui abbassa le palpebre. Mi sopporta.
Se c’è una parola capace di definire le montagne della Valtellina, questa è “verticale”. Attorno a noi pareti verticali di abeti che sembrano crescere uno sull’altro: le radici sulle punte. E in mezzo rocce e fenditure. In fondo, il fiume; ma non si vede, è troppo in basso. Si perde, come nel nero di un pozzo.
È uno spettacolo che mette un po’ di paura. Chissà com’era ieri notte sotto il diluvio…

Quando arriviamo in cima, Mosè ci aspetta con i suoi tre figli: due maschi e una femmina. È lei la mente del gruppo. Hanno già munto le vacche e adesso devono portare nel calécc un grande paiolo di rame dove faranno scaldare il latte. Uno dei figli di Mosè incastra due vecchi sci incrociati tra i manici del paiolo, lo solleva, lo rigira e se lo carica sulla testa, poggiando il collo sui legni.
Inizia a salire. Inesorabile come il fuoristrada di Paolo.
Il paiolo pesa un centinaio di chili, il calécc dista un centinaio di metri. Intendiamoci, cento metri di dislivello.
Massimo sta filmando un pezzo di storia antica. Queste persone vivono e lavorano come i Celti che abitavano queste montagne mentre i Romani li ricacciavano verso nord. Lavorano il latte e fanno il formaggio nelle stesse pietre dei druidi: i calécc, appunto.

I calécc sono costruzioni in pietra a base rettangolare; sembrano le strutture di edifici crollati e la prima impressione è che siano dei ruderi. Invece sono le antiche casere di pascolo, progettate e costruite apposta per lavorare il latte appena munto. Il segreto del Bitto storico e della sua capacità di invecchiamento è proprio nella lavorazione a caldo.
Ma non è solo questo. Non è mai una sola parola a fare poesia…
Davide posiziona la sedia all’interno del calécc e dice che “questa è la montagna perfetta, che appare oggi com’era 60 milioni di anni fa!”
In valle ci sono quattordici alpeggi che si susseguono regolari; ognuno è abitato da una famiglia di casari, dalle loro mucche e dalle loro capre. Conservano patrimoni antichi; ospitano piante, animali ed esseri umani che da sempre vivono in armonia con la natura.
Poi Davide parla del Bitto storico e dice che è l’unico formaggio al mondo capace di invecchiare oltre dieci anni. Svela che il suo nome deriva dall’antico termine “bitu”, che significa “perenne”.
Sbagliavo: una sola parola ed è già poesia.

Paolo ci guida alla scoperta del territorio e della sua immensa fragilità. Lo scenario è grandioso, ma debole. Basta poco per buttare giù le montagne.
Lui non è uno dei quattordici casari, ma è la persona che li rappresenta tutti; come dice Davide in trasmissione “è l’uomo che prima di tutti e meglio di tutti ha capito l’importanza del Bitto storico e la necessità di continuare a produrlo partendo dal rispetto assoluto per la natura.”
Le vacche mangiano solo erba di pascolo, sono munte direttamente in malga e il loro latte lavorato ancora caldo nel calécc, usando strumenti di legno.
Quando l’erba è finita e il campo ben concimato dagli animali, la mandria sale e si sposta nel pascolo più in alto, in un altro calécc.
Si fa sempre così, da sempre.

Il Bitto storico è il formaggio dell’erba. Ogni valle ha i suoi prati e i palati fini li riconoscono tutti. Sfumature preziose.
Paolo ha realizzato nel comune di Gerola Alta il centro di stagionatura del formaggio dove ci siamo visti questa mattima e dove Mosè e gli altri casari portano le forme che hanno prodotto in malga. Il pascolo dura tre mesi all’anno, il resto è neve e ghiaccio. Per gli allevatori, stalla e latteria.
Il centro di stagionatura diventa così anche un luogo di conoscenza, oltre che di valorizzazione della produzione; uno spazio vivo dove l’emozione dell’alpeggio dura tutto l’anno. Mentre le forme maturano, la gente si ritrova, assaggia, acquista, discute, ascolta, impara.
La conoscenza è sempre alla base del rispetto ed è necessaria per difendere mondi grandi, ma fragili.

A un certo punto del pomeriggio, le capre che si erano spinte in basso tornano in quota. Vedere a più di duemila metri un branco di capre orobiche che risale la montagna è uno spettacolo da non perdere. Massimo filma tutto mentre Davide si alza dalla sedia e si avvicina a Mosè. Il gregge adesso corre. Il pastore le chiama con piccoli versi pronunciati a labbra strette. Sono suoni indistinti. Se non fossi a pochi metri da lui non li sentirei.
Le capre sono inarrestabili; le corna lunghe, il mantello folto e scuro che svolazza lungo il pendio. Hanno seguito il sentiero alto. Sono salite sopra di noi e adesso scendono in picchiata. La parete è verticale, ma per loro è pianura. Mosè continua a chiamare. In un istante sono su di lui e il vecchio casaro viene risucchiato dal gregge.
Lui è il capo, e poi ha le tasche piene di sale…
Ne dà un po’ anche a Davide.
La mandria, allora, s’interessa a lui.
È come essere allo zoo, solo che qui gli animali sono liberi; noi siamo liberi.

La serata è a tavola. C’è del pane, un po’ di affettato e tanto formaggio. Bitto storico di varie stagionature. Abbiamo tutti fame e mangiamo di gusto.
Peccato. Non bisognerebbe mai avere fame per apprezzare i sapori. Si perdono i dettagli, sfumano le differenze.
Paolo suggerisce di masticare a lungo. Anche minuti. Così il palato diventa la cassa armonica di uno strumento musicale. I sapori come note. Ogni bocca una musica diversa.
Ci regala una fetta di Bitto storico a testa.
A casa lo mangerò così. Senza fame.

Bene, ora è tempo di andare. Ci aspettano altri paesi e altri paesaggi.
Però, prima di chiudere la sedia e rimettersi in cammino, Davide guarda il pubblico nascosto dietro la telecamera di Massimo e dice:
“Se venite in Val Gerola e vedete un calécc, fermatevi davanti alle sue pietre: sentite il profumo dell’erba e ascoltate la storia degli uomini e della natura di queste valli: è talmente antica da meritare un grande futuro. Perenne, come il Bitu…”
Venite in Val Gerola, ma non come turisti, mi raccomando, come ospiti.

(Luca Masia per Mentelocale 2013)

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