El leon en moeca

È un mare strano quello di Venezia, un mondo di acque basse in continuo movimento e trasformazione. Visto dall’alto, sembra un merletto. Tra briccole, tralicci, barene e reti, le rotte sono sentieri nascosti, come “le vie dei canti”. La prima volta che avevo visto Venezia ero insieme a Corto Maltese. L’avevo conosciuto da ragazzino nel mare salato e lo ritrovavo da adolescente tra le calli della Serenissima. Era il mio eroe: navigava la vita come solo i marinai sanno fare, abituati a galleggiare sull’ignoto. Il futuro, per un marinaio, non è davanti, ma sotto. Danzava la vita, in bilico sull’Equatore, dai mari del Sud alla laguna di Venezia. Luoghi di simboli e magie, animali che mutano pelle e terre che affiorano dall’acqua. Moeche che tornano granchi, barene che si dissolvono nella marea.

Ivan – il protagonista della puntata – è uno degli ultimi pescatori di moeche. È un uomo solido, con un sorriso aperto che sfoggia con parsimonia. Sarà lui il nostro Corto Maltese, il marinaio che ci guiderà in laguna.
Cesare, il ristoratore di Venezia che ci aveva messo in contatto, mi aveva parlato molto di lui.
– È un uomo forte, – aveva detto, – molto forte.
Così, lavorando alla sceneggiatura, avevo cercato qualche sua fotografia. Ne avevo scelto un paio e le avevo mandate a Massimo, il regista, e a Marco, il direttore di produzione. Tanto per mettere le cose in chiaro. Per far sapere ai miei amici di città che una parola di troppo, in barca con Ivan, sarebbe stato bene non dirla.
Ci incontriamo in un locale sulla fondamenta. Me l’aspettavo più alto. Nelle foto aveva la faccia ruvida per lo sforzo, mentre maneggiava cògoli gonfi d’acqua e pesci e granchi. Adesso sorride. Gli stringo la mano. Davide dice qualcosa in veneziano, che è la sua lingua madre. Parliamo di moeche, ripassiamo la lezione. Siamo già in laguna.

L’indomani mattina abbiamo appuntamento sul pelo dell’acqua, come usa a Venezia. Su una comoda lancia viene a prenderci Manuel, il fratello di Ivan. È più giovane, cordiale, un grande conoscitore della città e della laguna. È un piacere stargli accanto e ascoltarlo parlare. A un tratto ha un dubbio su una data: non ricorda bene quando un certo doge abbia deviato il corso di un fiume. Intendiamoci, una cosa da niente. Però per lui importante.
– Sono cose che ho studiato qualche anno fa, per il mio lavoro…
– Che mestiere fai?
– Ho sempre fatto il pescatore, ma adesso sono gondoliere.
Spero che molti turisti colgano l’opportunità di stare in barca con Manuel. Un pescatore con il talento del racconto. Passando nel canale avevo notato una gondola ormeggiata vicino alla loro casa. Un po’ mal messa.
– Era quella la tua gondola? – chiedo eccitato.
Lui mi guarda e sorride.
– La mia gondola è bellissima…
Rido anch’io, di me stesso. Alle volte diciamo cose proprio stupide.
Ivan accelera e Manuel gli tiene dietro. Passiamo dentro e fuori la barena, scivoliamo tra i canneti e voliamo sulle onde nella laguna aperta. Fa fresco e c’è un po’ di mare. Poi ci fermiamo. Ivan ha raggiunto le reti e salpa un cògolo, che è una specie di lunga nassa. La marea è alta e si vedono solo i pali conficcati nella sabbia. L’uomo si sporge, immerge le braccia nell’acqua gelida e comincia a tirare. In una giornata di lavoro, mi spiega Manuel, il pescatore salpa alcune decine di cògoli.
Fare il gondoliere è duro, ma in confronto è una vacanza.
Nella nassa c’è una grossa anguilla, tanti pesci e tantissimi granchi. Oggi si pesca bene perché è venuto il freddo e si è alzato il vento da nord. Allora il fango si muove e i pesci finiscono nelle reti. Per essere precisi, le reti si chiamano trezze e sono disposte sulle secche in prossimità delle acque più profonde, in genere a 45° rispetto alla corrente. Formano dei corridoi che chiudono il pesce e lo indirizzano versi i cògoli, che sono gli attrezzi di pesca veri e propri. Hanno la forma allungata, con una serie di imbuti di rete posti uno all’interno dell’altro.
Il pesce entra, nuota e va avanti finché non può più tornare indietro.

Sulla barca c’è anche una tavola di legno con i bordi rialzati, al centro dello scafo. È lì che Ivan rovescia il pesce ed è lì che effettua la prima selezione. I granchi vengono messi nei sacchi umidi di iuta e si portano a terra, nei casoni, dove si svolge la parte veramente difficile del lavoro del moecante, quella che lo distingue da qualsiasi altro pescatore.
A terra, nel casone accanto ai rimorchiatori, tutta la famiglia e i dipendenti lavorano alla cernita. Le moeche sono i granchi maschi, che due volte l’anno – in primavera e in autunno – mutano il carapace e per poche ore restano senza corazza. Allora sono moe – molli – e per questo si chiamano moeche. Fritte sono uno dei piatti più ricercati della cucina veneziana e al mercato possono raggiungere cifre altissime.
Come dice Davide, sono da copparse.
Vedere i moecanti al lavoro è uno spettacolo. Questi uomini grandi e forti, muovono le dita callose con la rapidità delle merlettaie. Separano a colpo d’occhio i granchi matti, che non faranno la muta, dai cosiddetti boni, che invece cambieranno corazza nel giro di poco. Sono come cercatori d’oro. Rivoltano i granchi alla ricerca degli spiàntani, le pepite d’oro del mare, che faranno la muta nel giro di poche ore.
Quante? Nessuno lo sa, nemmeno il moecante. Certo, lui conosce la natura e intuisce cose che agli altri sfuggono. Però non ha certezze e così mette i granchi boni e gli spiàntani nei vièri, speciali casse di legno immerse nell’acqua.
Nei vièri i granchi attendono che la natura compia il miracolo. Il moecante, due volte al giorno, controlla. L’intero ciclo della muta dura al massimo una decina di ore.
Quando il granchio perde la corazza diventa moeca, poi torna granchio e non serve più.

Quanta fatica per portare in tavola questi piccoli animali semplicemente buoni da mangiare. Io avevo assaggiato le moeche solo una volta, da ragazzo. Adesso sono affascinato dal lavoro dell’uomo, capace di cogliere ciò che la natura offre. Credo che la vicenda quotidiana di una moeca e del suo moecante vadano molto al di là di una frittura. Mi affascina la dimensione simbolica del granchio che muta. Ancora una volta torna alla mente Corto Maltese con la sua Favola di Venezia, così densa di simboli e significati nascosti. Lo stesso Pratt, nell’introduzione al libro, diceva che “i simboli seducono l’animo intrigante di un veneziano nel cuore”.
La moeca è il simbolo della trasformazione, l’attimo della rincorsa prima di spiccare il volo. Come il leone di San Marco, che spiega le ali sorgendo dalle acque.
El leon en moeca.

E comunque, buone sono buone. Anzi ottime. A patto di mangiarle con i pescatori, cucinate da loro. All’una in punto, siamo tutti a tavola. Ivan è già dietro ai fornelli, un altro pescatore lo aiuta. Il padre è il capo. Ha più di ottant’anni e ancora oggi, tutti i giorni, costruisce cògoli. Un altro merlettaio dalle dita grezze ma svelte, gli occhi sempre buoni. Lo filmiamo come merita, poi lo seguiamo mentre siede a tavola. Siamo in tanti e tutti parlano e ridono. La televisione è accesa. Ma la gerarchia è scolpita, come le leggi. Il padre in fondo, a capotavola. Alla destra il figlio maggiore. Ivan di fronte. Manuel accanto a Ivan. Poi i pescatori. Poi noi. Il vino è sincero e la pasta con le canocchie merita una manciata di stelle. Quando arrivano le moeche, il mondo si ferma.

Quasi quasi mi fermo anch’io, qui. Ma è tempo di andare, ci aspettano altri pasi e altri paesaggi.
Venite alla Giudecca e nella laguna di Venezia; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!

(Luca Masia per Mentelocale 2015)

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