Il gallo cominciò a cantare quando fuori era ancora buio. Piero se ne stava raggomitolato nel letto gelido; aveva gli occhi aperti e fissava il crocifisso appeso alla parete. Provò a muovere i piedi sotto la coperta infeltrita. Erano freddi. Faceva talmente freddo che non riusciva nemmeno a percepire la trama del crine nel pagliericcio.
Avvicinò le mani giunte sotto il corpo e disse, rapido, un Padre nostro. Poi aggiunse un’Ave Maria appena sussurrata; un tocco di bellezza lieve, materna. Il corpo restava gelido, ma già sentiva che l’anima si stava scaldando.
Scostò la coperta e poggiò i piedi sul pavimento. Non c’erano piastrelle nella stanza, solo nuda terra che d’inverno si impregnava di umidità. Gli piaceva il contatto con la terra, dava un senso di solidità. Indossò un maglione del fratello maggiore e si mosse al buio verso la cucina. La mamma era già in piedi. Aveva tagliato un vecchio giornale in strisce sottili e con una manciata di rametti stava accendendo il fuoco. Anche la carta era umida, come la legna e il fiammifero. Prima di sfregarlo sulla ghisa, soffiò un po’ di volte sullo zolfo. Solo quando fu sicura di averlo asciugato per bene, lo accese. Un colpo solo, gesto esatto. Avvicinò la fiammella alla carta. La magia del fuoco. Piero osservava attento. Disse nella mente un’altra Ave Maria, come d’incoraggiamento. Se vuole, la madre celeste è capace di aiutare le madri sulla Terra. Cose di donne. Sorrise quando la carta del giornale si accese in mezzo alla legna. L’umidità sfrigolava e spandeva un buon profumo. Per fortuna la Vergine aveva dato un’occhiata in basso, dalle parti di Pievedizio. Bisognava meritarseli gli aiuti. E lui ce la metteva tutta, anche se era solo un bambino, figlio della guerra.
Piero Sala era nato nel 1940. L’avevano chiamato Pietro, ma per tutti era Piero. La guerra l’aveva vissuta poco. Certo, quando l’aereo Pippo sorvolava i paesi della Bassa bresciana, tutti erano spaventati. Gli inglesi bombardavano le città dall’alto, mentre i piccoli borghi agricoli come Pievedizio li mitragliavano con voli radenti, per sfuggire alla contraerea. Quando Pippo volava, la mamma Orsola lo abbracciava e lo teneva stretto, rannicchiata sotto l’arco di una volta in pietra. Muro solido, poteva resistere anche alle bombe. Piero sentiva il respiro della madre e non percepiva la sua paura, solo fiducia. La sentiva pregare sottovoce, e lui pregava insieme a lei. Diceva le preghiere come fossero formule magiche. Se ci si crede, le cose accadono.
Intanto la mamma aveva aggiunto due piccoli ceppi nella stufa. La regola era metterli il più vicino possibile, in modo che si toccassero il meno possibile. Era già una scuola di vita. Insegnava che i legni – come le persone – devono scambiarsi la fiamma senza togliersi l’aria. Subito dopo, Orsola aveva regolato il tiraggio per rallentare la combustione. La legna doveva durare. Serviva pazienza, anche sapienza, per tenere la fiamma viva sempre a un passo dal morire. Come certi vecchi del paese, con il corpo annodato come tronchi di olivo.
Nel frattempo era entrato in cucina anche il papà. Si chiamava Giovanni ed era invalido. Aveva combattuto nella Prima guerra mondiale e un proiettile gli aveva colpito una gamba. Lavorava in campagna come bracciante agricolo. Con la gamba ferita, il lavoro delle braccia era diventato ancora più duro. Durante la settimana non si lamentava mai, ma la domenica il dolore veniva fuori tutto insieme. Soprattutto in inverno, quando la notte era senza fine e l’umido entrava nelle ossa.
– Fa male? – chiese Orsola.
– Adesso passa – disse Giovanni sedendosi lontano dalla stufa. Lasciava sempre a Piero, il piccolo della famiglia, il posto più caldo.
Lui teneva la testa bassa, in segno di rispetto. Aspettava il latte. La madre l’aveva versato in un bricco sul fuoco. Per farlo bollire più in fretta aveva tolto un paio di dischi di rame dal fornello e la fiamma saliva adesso gagliarda. Pensava Piero al roveto ardente, alla fiamma che non si spegne mai. Sarebbe bastato uno di quei rametti divini per avere il fuoco sempre acceso anche di notte. La mamma versò nella scodella il latte ancora fumante, con uno strato denso di panna che galleggiava in superficie. Il papà intanto aveva tagliato una fetta di pane secco.
La cosa più bella era il vapore che saliva dalla tazza e gli scaldava la fronte. Poi inzuppava il pane nella panna e lo immergeva nel latte. Serviva una certa esperienza per tenerlo abbastanza a lungo da ammorbidirlo, ma non troppo da scioglierlo. Bisognava cogliere l’attimo, che fugge, mentre la vita scorre.
Intanto, la pendola appesa alla parete segnava le sette.
– Vestiamoci – disse asciutta la madre. – Altrimenti facciamo tardi.
Piero finì in fretta il latte e raccolse le briciole di pane nella mano. Le buttò giù tutte insieme, avendo cura di lasciarle sulla lingua perché durassero più a lungo. Mise la tazza nel catino di zinco, che poi avrebbe lavato con l’acqua del pozzo. Fuori si era fatto giorno, ma la nebbia era così densa che non si vedeva nemmeno il capanno di legno con il bagno, che il papà aveva costruito fuori dalla casa. Prese i vestiti in camera e li appoggiò sulla sedia vicino alla stufa. Anche la mamma era andata a prepararsi, mentre il papà beveva il caffè. Sulla tavola c’era un mezzo bicchiere di vino: era domenica.
Quando Orsola tornò in cucina pronta per uscire, Piero si era messo solo una calza.
– Sei ancora lì? Guarda che il Signore non aspetta!
– Si è bucata.
– Dopo la rammendo. Adesso rigirala.
Piero finì di vestirsi. Indossò i pantaloni corti di fustagno, poi una camiciola di flanella smessa da uno dei fratelli, la giacchetta di lana e il cappottino con i bottoni dorati. La festa era già iniziata.
– Andiamo, Piero. Non senti le campane?
La mamma lo prese per una mano e lo trascinò fuori, nella nebbia fitta e umida. Piero sapeva che anche nelle giornate peggiori, quando il tempo era proprio uno schifo, sopra le nuvole c’era il sole. Bastava pensarci per vederlo. Una specie di miracolo.
Confesso che, alla richiesta di scrivere la prefazione di questo libro dall’interessante titolo “Piero Sala. Il coraggio dell’accoglienza”, mi sono domandato da dove partire, visto che non conoscevo Piero Sala, né mai avevo sentito parlare di lui e della sua associazione Conoscerci.
Ma dopo aver letto il libro di Luca Masia, non posso che ringraziarlo per avermi dato questa opportunità. Approfondire il testo che fa memoria di Piero ha permesso a me, e penso permetterà anche a coloro che lo leggeranno, di avvicinarsi a una figura così unica e allo stesso tempo così rappresentativa di un movimento che ha attraversato gli anni post conciliari con un profondo rinnovamento civile ed ecclesiale, che ha toccato anche il modo di intendere la solidarietà.
L’esperienza raccontata nasce in un contesto fortemente religioso che Piero respira nei campi della terra bresciana bonificati dai monaci benedettini; nella chiesa del paese con la messa quotidiana frequentata insieme alla madre; nella testimonianza del missionario comboniano con il carisma di aiutare “l’Africa con gli africani”.
Probabilmente non si può comprendere Piero al di fuori della fede cristiana incarnata in quel tempo di veloce cambiamento: densa di preghiera, ma con i piedi per terra; fatta di cuore e azione, coraggio appunto, che non si accontenta di fare qualcosa per gli altri, ma si impegna a promuovere giustizia e dignità. Una fede che per essere credibile ha bisogno di tradursi in solidarietà: che ci fa riconoscere bisognosi gli uni degli altri; ci aiuta a diventare cristiani e a restare umani, se e quando ci prendiamo cura degli altri; ci fa comprendere che solo insieme possiamo affrontare le sfide, anche le più grandi, per cambiare le cose; che vive nel mondo, ma decide da che parte stare: quella dei deboli. “Piero conosceva ogni lembo del territorio ed era amico di tutti, soprattutto degli ultimi. A modo suo, li proteggeva dalle ingiustizie del mondo”.
Il coraggio dell’accoglienza di Piero, ovunque si orienti – verso gli aiuti alle missioni, la valorizzazione delle persone disabili, la promozione della donna per lo sviluppo, l’assistenza e l’integrazione dei migranti –, ha sempre cercato di creare le condizioni per promuovere la dignità della persona e dei popoli. In modo originale e comunitario:
– rispondendo alla sua vocazione: una chiamata all’accoglienza come famiglia e come volontario per le missioni, riuscendo ad attuare quell’idea di cristiano che è l’unità tra fede e vita;
– nella postura dell’ascolto: dai missionari alle persone disabili, dagli amici e dai migranti che gli hanno fatto scoprire le vie concrete per non fermarsi alla pur necessaria assistenza, ma trovare strade più complesse e dense di futuro, come la promozione dell’istruzione, del lavoro e della dignità di tutti e di ciascuno, nessuno escluso;
– insieme agli altri: organizzando la solidarietà con la costituzione del gruppo di volontari dal nome Conoscerci, sostenendo un volontariato creativo – penso alla raccolta differenziata ante litteram – e profetico.
Un’accoglienza che ha attraversato le strade lontane della missione, ma sempre con uno sguardo attento ai “prossimi” più fragili, ai disabili, e che si è rinnovata quando ci si è accorti che l’Africa era giunta nelle nostre terre con l’immigrazione.
Un’accoglienza coraggiosa, soprattutto oggi, va sempre coniugata con il tentativo di dare dignità alla persona e fornire alle comunità strumenti per liberarsi dalla dipendenza degli aiuti. Un’accoglienza che non si pone l’obiettivo di rimuovere le cause della povertà e di trasformare i sistemi malati che generano esclusione e diseguaglianze, non solo non riesce ad aiutare i bisognosi del presente, ma non eviterà quelli di domani. Infine, un’accoglienza che non chiede alle persone e alle comunità di assumersi la loro parte di responsabilità verso sé e verso gli altri non è mai efficace, perché riproporrà le stesse condizioni che hanno portato queste a chiedere aiuto.
Nell’esperienza di Piero, l’appello di don Vittorione rivolto alla sua associazione Conoscerci: “Aiutateci ad aiutarli” si trasforma in un “aiutaci ad aiutarti”. Negli ultimi anni, anche nella solidarietà si è consolidato questo nuovo atteggiamento, che promuove una relazione di aiuto che riconosce – nel cosiddetto bisognoso – il vero protagonista del proprio riscatto. Leggo, nelle tante relazioni di aiuto che Piero ha tessuto nel corso della sua esistenza, una capacità di generare nuova vita e autonomia:
– in Carlo “che reggeva con tanta leggerezza il peso della responsabilità. Piero, maestro di vita, lo sorvegliava a distanza. Pronto a intervenire, senza alcuna intenzione di intervenire;
– in Babacar che “ogni volta che poteva aiutare qualcuno, pensava a Piero. Ogni volta che aiutava qualcuno, si sentiva Piero”;
– negli immigrati del Centro di Accoglienza per Immigrati di Breda Libera che, dopo la morte di Piero, rilevano il gruppo di volontariato Conoscerci assumendosi la responsabilità della Casa Breda per darsi e dare un futuro alla comunità che abitavano.
In fondo, il sostegno più importante che possiamo offrire a un povero, che si trova momentaneamente in uno stato di bisogno, è quello di aiutarlo a realizzare la propria buona vita. Per il cristiano, il modello di vita è Cristo che si dona senza misura. La vera vita è una vita donata con gioia: vivere per gli altri e prendersi cura degli altri, soprattutto i più fragili, nella reciprocità. Una vita che può e deve diventare possibile anche per i poveri, i quali non devono diventare, come spesso accade, piccoli egoisti una volta risolti i propri problemi materiali, ma possono invece contribuire a costruire una comunità – magari quella stessa comunità che prima li aveva esclusi – più accogliente e sicura. Che cosa c’è di più straordinario di quando le persone che hanno ricevuto un aiuto tornano nei nostri servizi e chiedono di diventare volontari per restituire, con quello che possono, il tanto che hanno ricevuto? Anche oggi abbiamo bisogno di uomini e donne capaci di ricostruire nuovi legami e nuove comunità.
Se c’è un’emergenza oggi è quella di smascherare le chiusure, a volte ideologiche, che criminalizzano i poveri e la solidarietà – ne vediamo i germi anche nell’esperienza di Piero “che era stato al centro della comunità del bene, e cominciò a essere visto come un portatore di male, infaticabile generatore di problemi”. Non sempre siamo liberi di lasciarci provocare dalle nuove povertà ed essere pronti ad accogliere i futuri e sempre presenti poveri, da qualunque parte arrivino. Anzi, sembra che la cooperazione, la solidarietà, la sostenibilità ambientale e il multilateralismo nei rapporti tra nazioni lascino sempre più il campo alla logica del mercato, del più forte, delle armi, dei prepotenti della storia.
Oggi più che mai abbiamo bisogno di un pensiero nuovo, di una carità che diventa cultura, di Vangelo che ci aiuti a guarire quella lebbra che è rappresentata dall’egoismo – come denunciava Piero quando rifletteva sulle parole di Raoul Follereau a proposito di ciò che davvero dovrebbe disgustarci: le disuguaglianze, le ingiustizie, la corsa agli armamenti, le discriminazioni fatte di muri e impedimenti burocratici contro i più deboli, le solitudini, la negazione dei diritti fondamentali di un lavoro degno, della salute, dell’istruzione, della giustizia, della pace, della terra e dell’acqua…
Per fare questo – cioè andare contro la corrente che sembra prevalere sulla carità cristiana e sulle solidarietà costituzionali – occorre un pensiero lucido, ma anche tanto coraggio.
Auguro al lettore di prendere da Piero questo coraggio di incontrare i volti dei poveri, e da questo punto di vista cercare di cambiare le cose. Ed essere così uomini e donne di speranza, capaci ancora di accogliere in modo nuovo anche oggi!
Luciano Gualzetti, Direttore Caritas Ambrosiana



