SAN BENEDETTO Un lungo sorso di freschezza

La macchina della famiglia Zoppas parte al mattino presto da Conegliano e sale verso le Alpi bellunesi. È vacanza, tempo di montagna. Poco prima di San Vito di Cadore c’è una sorgente. L’auto si ferma e accosta vicino alla fonte.

Ci sono già altre persone; qualcuno beve solo un bicchiere, altri riempiono bottiglie e damigiane che riporteranno in città. Il piccolo Enrico scende dall’auto. Non ha sete, però obbedisce ai genitori e insieme ai fratelli beve quell’acqua che dicono sia miracolosa.
Tutta la famiglia si unisce a lui e celebra il rito. 
Oggi, quella fonte esiste ancora. Però, vicino allo zampillo, c’è un cartello con la scritta “Acqua non potabile”.
Nell’immediato dopoguerra, l’Italia era disseminata di fonti che si credeva avessero proprietà benefiche e curative. Sorgenti considerate millenarie, dal passato avvolto nella leggenda. Spesso si trattava di acque solforose, quasi imbevibili, che emanavano un odore caratteristico e insopportabile. Alcune erano addirittura chiamate “acque marce” e più erano cattive più si pensava che facessero bene. L’acqua per molti era una specie di medicinale: una piccola punizione necessaria alla salute. L’acqua minerale, come la intendiamo oggi, quasi non esisteva nelle case degli italiani. Si consumava al bar, in prevalenza gassata, e il più delle volte veniva usata per allungare il vino o preparare aperitivi come lo spritz, con vino bianco frizzante e una scorza di limone.
Soprattutto in Veneto, il consumo di vino era molto alto e la qualità media del prodotto piuttosto scarsa. Per reggere oltre 100 litri di vino a testa all’anno, i consumatori avevano bisogno anche di acqua, molta acqua. L’oste allungava il vino nel bicchiere e permetteva a tanti clienti di tornare a casa in piedi, senza cadere dalla bicicletta.

 

Dalla prefazione di Ferruccio De Bortoli

C’è una frase, riportata in questo libro, che Luigi Zoppas dice al figlio Enrico: “Un tempo il problema era sopravvivere. Non si mangiava per vivere e il piacere non era nel cibo ma nello stare al mondo”. Descrive perfettamente lo stato d’animo delle famiglie nell’immediato dopoguerra, e racchiude in sé anche il valore di un passaggio di testimone generazionale tra un imprenditore e suo figlio. Si cominciava a intravedere, in quegli anni, uno scorcio di benessere che veniva però vissuto addirittura con un senso di colpa. Il ricordo dei dolori e delle privazioni, non solo della guerra, era ancora inciso nella carne della gente, era impresso nella memoria collettiva.

Si stentava a credere che quello che si possedeva – persino il semplice ingrediente di una modesta cena – potesse rappresentare una conquista duratura. Una condizione psicologica che riassumeva la saggezza e il senso pratico di un’Italia ancora contadina, timidamente affacciata alle soglie del benessere, temprata nel carattere dallo spettro della fame e dai rigori di inverni gelidi. Gente non ancora abituata al consumo, talvolta vissuto addirittura come uno scialo, ma consapevole che sacrificio e lavoro venissero prima o poi premiati.

In questo piccolo ritratto identitario degli italiani della seconda metà del Novecento – e specie degli abitanti di quel Nord-Est dal quale ancora si emigrava in massa – si trovano le radici di un’imprenditorialità ruspante e irrequieta ma solida e concreta. Legata alla terra, al proprio modo di essere, ma non chiusa, aperta al mondo.Con un’inarrestabile curiosità di conoscere e sperimentare. Abituata a stare in fabbrica come nei campi. A lavorare accanto ai propri dipendenti, gomito a gomito, quasi confondendosi con essi

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