All’aeroporto di Bari, dove noleggio una macchina, mi chiedono se voglio le catene.
– A Matera sarebbero obbligatorie…
– Non è previsto maltempo, – dico io.
– La città è in montagna: fa freddo, potrebbe nevicare…
Firmo il contratto e salgo in macchina, senza catene. La strada corre nella notte, dritta e rettilinea, attraversando campi piatti e uniformi. Non vedo i cereali, ma so che ci sono. Non vedo nemmeno la montagna, ma so che arriverà.
Dopo Altamura sono ancora nel mezzo della pianura. Solo in prossimità del cartello di Matera, il muso dell’auto si alza di qualche grado. Non c’è la neve, e nemmeno la montagna. Qualche curva ampia e sono nel paese nuovo, quello nato dopo “la vergogna nazionale” e l’abbandono forzato dei Sassi.
La prima sorpresa è la gente. Sono le otto passate e tutti passeggiano in strada. I negozi sono aperti e ben illuminati. Mi perdo più volte. Finisco in un senso unico a ridosso del centro storico dove in un altro luogo mi avrebbero tolto la patente. Qui invece mi si avvicinano pazienti, mi sorridono, mi spiegano come raggiungere il mio albergo.
Seguo le indicazioni e dopo un lungo giro mi ritrovo davanti a un semaforo verde, all’imbocco di una discesa ripida lastricata. Ci siamo. Il viaggio nel tempo, nella città che resiste dal Neolitico, comincia adesso. Passo davanti alla chiesa di San Pietro Caveoso e proseguo fino al parcheggio ricavato in una curva della strada. Esco dall’auto, disorientato. Da un lato la città, che affiora nella notte punteggiata di piccole luci; dall’altro il niente. Mi sporgo dal parapetto. Percepisco il vuoto, profondo, con un rumore sommesso d’acqua che sale dal fondo. Infine entro in albergo, che è una grotta di lusso. E mentre mi addormento, penso a quanto Matera assomigli a Venezia: l’una strappata all’acqua, l’altra alla roccia.
L’indomani mattina, la sveglia suona presto. Il sole è alto e illumina la Murgia. Adesso posso vedere ciò che ieri intuivo soltanto. Un monte che sale di colpo dalla pianura, con una grande spaccatura al centro e il fiume in basso. Sulle pareti di tufo, un’intera città che sembra uscita dalle pagine di Calvino. Me lo vedo, Marco Polo che racconta per filo e per segno questo mondo sotterraneo: la sua gente, le sue abitudini di vita che hanno attraversato i millenni. E Kublai Khan che sgrana gli occhi e non crede alle parole del veneziano. Nemmeno quando gli dice che i Sassi, dopo l’abbandono degli anni cinquanta sono diventati Patrimonio dell’Umanità e presto saranno Capitale Europea della Cultura. È tutto talmente unico che il Gran Khan non ci crede. Bisogna essere di Matera, per crederci.
Massimo, il protagonista della puntata, è un giovane fornaio di Matera. Un uomo che crede nella sua città. Noi del nord lo chiameremmo panettiere, ma lui è un fornaio, di terza generazione. La famiglia aveva il forno nei Sassi, poi il nonno era migrato nella parte nuova prima degli altri, guardando lontano. Qualche anno fa, anche il nipote ha saputo guardare lontano, intuendo che il futuro del pane di Matera era racchiuso nella sua storia, nei novemila anni di fragranza croccante. Pagnotte sacre, fatte per durare. Il rischio era quello di perdere nelle pieghe voraci della modernità i segreti di questo pane antico come i Sassi, gettarlo nel fondo della Gravina e sostituirlo con panini fatti d’aria, lieviti industriali e farine raffinate.
Massimo e altri giovani fornai di Matera hanno invece ritrovato le ricette, ricostruito la storia del pane che avevano conosciuto da bambini, imparato i gesti e i tempi del forno; poi hanno scritto un disciplinare e sono riusciti a ottenere l’Indicazione Geografica Protetta, il marchio di qualità che l’Unione Europea attribuisce a quei prodotti alimentari che sono frutto di un luogo, della sua storia, morfologia e cultura. Cibi che altrove sarebbero impossibili.
Davide si accosta con molto rispetto al forno di Massimo. Il vapore esce dal portello, che ogni tanto deve essere aperto per controllare la cottura e regolare la temperatura. La cottura è lenta, almeno due ore. La temperatura è alta all’inizio, poi diminuisce gradualmente, perché all’esterno delle pagnotte si formi una crosta alta e croccante e all’interno una mollìca alveolata, densa e consistente.
Davide discute molto con il personale del forno. Mi sorprendono sempre la sua curiosità e l’attenzione ai dettagli. Assaggia e domanda. A un tratto nota qualcosa e mi chiama eccitato. Le pagnotte, illuminate dalle braci, sembrano pezzi di terracotta e ricordano i guerrieri cinesi del primo Imperatore, l’uomo della Grande Muraglia.
– Vedi, – mi dice Massimo, – la storia di Matera è tutta scritta nel suo pane.
Prima di richiudere il portello mi indica le pietre del forno.
– Ognuna cuoce in modo diverso, – spiega, – e le donne che portavano al forno il pane, avevano la loro preferita.
Spezziamo un frammento di crosta e mentre mangiamo torniamo a parlare di quella comunità, povera ma dignitosa, che aveva incontrato Carlo Levi: i bambini avevano le mosche sugli occhi ma tutti lo invitavano in casa a dividere ciò che c’era. Il pane era la prima cosa, la più importante. Le donne, al mattino presto, lo mettevano a lievitare nel letto, dopo che il marito si era alzato per andare nei campi. Il calore dell’uomo dava all’impasto l’ultima spinta prima di essere infornato. Come un incoraggiamento.
– E il lievito madre? – domando. – Sarà millenario pure lui…
– Nient’affatto! Da noi è sempre fresco.
Massimo mi racconta delle sue ricerche presso le anziane che avevano vissuto nei Sassi. Il lievito madre non mancava mai in casa, e se mancava c’era sempre una vicina pronta a prestarlo. La tradizione, che adesso è parte integrante del disciplinare, voleva che venisse fatto con frutta fresca di stagione, lasciata macerare nell’acqua e poi aggiunta alla farina.
Giusto, la farina. Il pane di Matera si produce solo con semola di grano duro lucano, della varietà Senatore Cappelli, quel grano antico e prezioso di un’Italia che al di là della retorica fascista credeva nella terra. Una specie di grano padre, da unire al lievito madre.
Adesso che l’impasto è pronto e ben lievitato, possiamo procedere. Massimo lavora e Davide imita i suoi gesti. Sono azioni precise; ognuna racconta una storia.
Si comincia con una prima piega, poi una seconda, quindi si pratica un solco al centro che ricorda la Gravina e che si realizzava con un movimento dell’avambraccio, poi si solleva la testa della pagnotta e si spinge la spalla, perché il pane cresca in altezza come i Sassi e non tocchi mai quello del vicino. Guai se due forme dovessero baciarsi, sarebbero da buttare. Infine si praticano i tre tagli che richiamano la Santissima Trinità.
– Vedi, – mi spiega Massimo togliendo dal forno le pagnotte appena cotte, – i tagli erano in basso, poi con la cottura sono saliti e alla fine te li ritrovi in alto.
– Succede perché hai spinto la spalla dopo aver sollevato la testa?
– Bravo! Quello che sembra un gesto da niente, è la chiave di tutto.
È sera. Torno nella mia grotta di lusso, mentre Matera ridiventa a poco a poco un presepe notturno. Da un lato la vita, tenacemente aggrappata alla roccia, sempre alla ricerca dell’acqua che scorre in profondità; dall’altra la notte, che sovrasta le case, addossate le une alle altre.
Mi riaddormento felice. Percepisco l’umido del tempo, che scorre lento e svapora, assorbito dal tufo.
Venite a Matera, città dei Sassi e Capitale Europea della Cultura; ma non come turisti – mi raccomando – come ospiti!
(Luca Masia per Mentelocale 2015)