MOTION BUILDINGS, MEETING PLACES.

Era un venerdì pomeriggio, assolato e umido. Si preparava il temporale della sera. Lo aspettavo, mentre sulla carta del mio blocco schizzavo architetture astratte. M’immergevo nella mia solitudine. Intorno a me la riunione procedeva a singhiozzo. L’indonesiano era una lingua sconosciuta: una specie di musica da ascoltare senza capire. Lunghe sequenze di consonanti nervose e saltellanti, talvolta interrotte da silenzi improvvisi, oppure morbidi appoggi vocali, materni e caldi. Ero a Giacarta da tre mesi. La città mi aveva accolto con il suo clima afoso, milioni di abitanti e un inestricabile miscuglio di modernità e arretratezza. Un luogo impegnativo da decifrare, soprattutto per me. All’epoca stentavo a decifrare anche me stesso. Giacarta assomigliava a una grande madre, sempre sudata ma con l’alito fresco e la pelle che profumava di spezie. Mi aveva ospitato offrendomi un lavoro: la cosa più importante. Era una madre affettuosa, ma silenziosa. Sorrideva e taceva. Tutti tacciono, in Asia. Un continente dove i silenzi parlano e i movimenti del corpo addirittura gridano.

Mi sentivo solo. Le vele della mia barca interiore sbattevano nella calma equatoriale e procedevo senza una direzione. In quei giorni difficili, mi affidavo solo al mio grande naso. Da piccolo avevo il complesso del naso, ma adesso che la corrente mi spingeva lontano, solo il mio naso a forma di deriva impediva che lo scafo si ribaltasse. Il naufragio, comunque, sembrava imminente.

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