TRATTI L’assedio di Parigi

Il puparo decise di andare in scena. Qualche sera prima aveva rifatto i conti e si era convinto che ci volevano almeno dodici spettatori per non andare in perdita. In sala adesso c’erano solo quattro persone: due bambini e i loro genitori. Ma siccome i bambini non pagavano, era come se fossero solo in due. Una miseria.
L’estate era quasi finita e la sera tiepida. Tutto sembrava sospeso, come in attesa di prendere una direzione. Le finestre del teatro erano aperte, ma non c’era più il caldo dei giorni scorsi; anche dietro la scena, nello spazio angusto dove lavorava il puparo, si respirava meglio.
Era quasi ora. Aveva messo in scena “L’assedio di Parigi” centinaia di volte, forse migliaia. Aveva cominciato da bambino, aiutando il padre. All’inizio stava in laboratorio e guardava. Alle volte chiedeva qualcosa, ma raramente il padre gli rispondeva. Di solito sorrideva e taceva. Quando era di buon umore diceva: “Guarda come faccio io”. Ogni tanto spiegava, e quelle volte bisognava stare attenti perché le cose le diceva una volta sola. Un giorno ebbe il permesso di toccare gli strumenti della falegnameria, poi l’onore di passarli al padre e infine l’incarico di rimetterli a posto al termine della giornata. Solo da adolescente gli fu permesso di salire sul palco. Doveva starsene in un angolo e rendersi invisibile. Si faceva d’aria e spariva nel buio delle quinte, per poi materializzarsi all’improvviso non appena coglieva un ordine del padre, impartito con un impercettibile movimento del corpo. Allora sgusciava dall’oblio, afferrava un pupo dalla rastrelliera e lo porgeva al puparo che lo afferrava e lo metteva in scena senza mai smettere di recitare.

Altre opere